Flessibilità: un valore o una condanna?

La flessibilità può risolvere le sorti dell'economia: lo ripetono in molti come un mantra. E i neolaureati si dicono pronti.

di Raffaella Giuri

La fase di crisi che pervade le economie mondiali ha dato maggior risalto al tema della flessibilità, che si auspica applicato al mondo imprenditoriale come alle regole del libero mercato o ai limiti di bilancio degli stati. E’, però, soprattutto nel mercato del lavoro che questo concetto viene per lo più invocato.

L’idea di flessibilità, introdotta massicciamente a metà degli anni ’90 con la Legge Treu, è divenuta familiare con la legge 30 del 2003, la c.d. Legge Biagi, che riproponeva la questione della flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro come mezzo migliore per agevolare la creazione di nuovi posti di lavoro e che, nelle intenzioni, voleva risolvere la rigidità del sistema, colpevole spesso di alti tassi di disoccupazione.

Da allora, il termine flessibilità, vituperato (più spesso) od osannato (più raramente), non manca mai sulle colonne dei quotidiani ed è ospite fisso ogni sera a cena davanti al telegiornale. Non c’è da stupirsi quindi che anche la più giovane delle generazioni, la “generazione Y” (nella quale rientrano tutti i nati dopo il 1980), alle soglie del suo ingresso nel mercato del lavoro sia pronta a fare i conti con questa nozione; lo ha detto, tra l’altro, rispondendo alle domande della Recent Graduate Survey, ricerca condotta da Cesop Communication che ogni anno, dal 2002, traccia il quadro delle percezioni e delle aspettative di un campione rappresentativo di neolaureati in giro per l’Italia.

L’idea di fondo è che sia difficile ottenere un’occupazione stabile nel nostro Paese, a differenza che all’estero, e in questo l’università, sostiene il campione, non è considerata un buon ponte di collegamento. Da un lato perché non prepara ad affrontare l’operatività di un ruolo professionale e spinge la quasi totalità ad attendersi una formazione suppletiva una volta entrati in azienda. Dall’altro, nella maggior parte dei casi, non sono giudicate come efficienti le strutture di ateneo preposte all’orientamento in uscita e al placement. Va detto, peraltro, che molti neodottori hanno già nel loro bagaglio di esperienze qualche attività lavorativa, ma come capita spesso agli studenti non si tratta di esperienze qualificanti e nella maggior parte dei casi terminano con il periodo universitario.

Ma torniamo al tema della flessibilità. Per un neolaureato significa, in primo luogo, la disponibilità ad accettare contratti atipici e mansioni inferiori o diverse rispetto a ciò che ritiene siano le proprie potenzialità (o, meglio, a ciò che convenzionalmente sarebbe stato il suo orizzonte lavorativo) pur di iniziare a lavorare nell’azienda maggiormente desiderata. Un aspetto importante della flessibilità è poi legato alla spiccata disponibilità al trasferimento degli intervistati: quasi il novanta per cento si dichiara disponibile a modificare il proprio domicilio per lavoro (oltre la metà non avrebbe problemi a farlo in Italia o all’estero), il che va ben al di là dell’essere disposto a trasferte periodiche e che, se confermato nei fatti, rappresenterebbe un dato interessante di cambiamento sociale. Il dato conferma, peraltro, le aspettative nella sua ripartizione geografica: i laureati del Sud e delle Isole sono più flessibili alla mobilità di quelli del Centro, e ancora di più dei loro colleghi del Nord.

“Quella di cui parliamo - secondo l’Istud - è una generazione che possiede un’identità fluida e che della flessibilità ha fatto una caratteristica identitaria”. Se, come sostengono, i nuovi lavoratori della generazione Y sono disposti a cercare all’estero ciò che non vedono possibile in patria, si porrà il problema per le nostre imprese di trovare nuove forme di attrazione soprattutto in un momento di skill shortage come quello che stiamo vivendo.


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