"Vorrei proprio andarmene, lasciare tutto, lasciare questa città, questa classe dirigente ammuffita sulle sue poltrone, questo Paese. Non ne posso più del sistema che promuove la spintarella, il nepotismo, il lignaggio. Me ne vado e mi prendo la rivincita dove il merito ha ancora un valore". Questa frase è inventata, ma non è così lontana dalla realtà. Il tono esacerbato è lo stesso che si ritrova nei tanti forum online di discussione sul lavoro in cui ci si confronta, scambiandosi informazioni e commenti. E lo conferma il sondaggio del nostro magazine online Jobmeeting.it: il 95% di chi ha risposto, ha pensato almeno una volta – quando non lo abbia già progettato - di emigrare. I percorsi di vita attraverso i quali si arriva a questo punto possono essere diversi, ma il motivo di fondo è lo stesso: trovare maggiori opportunità.
L'emigrazione in sé non è un fatto nuovo, perché ha già caratterizzato diverse tappe della storia del nostro Paese. Pensiamo alla grande emigrazione iniziata nella seconda metà dell'Ottocento e proseguita fino agli anni trenta del Novecento. E poi la seconda emigrazione che ha caratterizzato gli anni cinquanta. La molla era la povertà che spingeva le classi più deboli ad inseguire il sogno di una vita migliore, senza stenti. Quella di oggi è sostanzialmente diversa da quella dei nostri bisnonni o trisavoli, perché è un'emigrazione colta, ben oltre la media della popolazione, tanto che è stata ribattezzata "la fuga dei cervelli". Ad andarsene sono sempre più i laureati e in molti casi i migliori, i più intraprendenti. La perdita per il Paese è secca: dopo aver investito decine di migliaia di euro in istruzione pubblica nel corso degli anni -si stima che uno studente universitario costi allo Stato più di 15 mila euro all'anno- per formare quel capitale umano, lo perde nel momento in cui diventa produttivo.
"Il profilo dell'emigrante medio è maschio, laureato -spesso ex Erasmus- e con un'età che varia tra i 25 e i 35 anni" spiega Sergio Nava, autore del blog "La fuga dei talenti" e conduttore di "Giovani talenti" su Radio 24. "Chi ha fatto l'Erasmus è tra i primi a ripartire – sottolinea Nava - perché l'esperienza l'ha già fatta e non ha paura. E quando lo fa non necessariamente sceglie lo stesso paese in cui ha studiato".
Parlare di una nuova ondata di emigrazione oggi non è futile e non dovrebbe essere considerato argomento da allarmisti, perché il fenomeno sta assumendo sempre più consistenza. "La fuga dei talenti" ha raccolto un po' di dati e di stime: sono ufficialmente circa 50.000 gli espatri ogni anno, secondo l'Istat (Aire) di cui 30.000 under40. Secondo i dati ufficiosi, che stimano anche coloro – e sono molti - che non comunicano al Ministero dell'interno il cambio di residenza, gli under 40 raggiungerebbero addirittura i 70.000. Sempre secondo l'Istat il 16% sono laureati (erano il 9% solo nel 2003) e il 20% diplomati. Altre fonti però correggono al rialzo queste stime: secondo Confimprese Italia ad avere preso la laurea prima di fare le valigie sono invece il 70%, un dato che ha trovato parziale conferma anche in un sondaggio lanciato online nell'ottobre 2010 da Repubblica.it e a cui hanno risposto in 25.000.
"Inoltre, il dato più recente su cui riflettere – dice Nava - è che decidono di fare questo passo anche molte coppie giovani con figli piccoli, a emigrare cioè è un'intera famiglia: emigra il presente e il futuro, con una maggiore prospettiva di stabilità rispetto alla fuga del singolo. Questa è un'evoluzione inquietante del problema".
Il problema, appunto, è la mancanza di prospettive. Come spiega un articolo de Il Sole 24 Ore, "per un giovane laureato i salari d'ingresso nel mercato del lavoro sono oggi pari -in termini reali- a quelli di 30 anni fa". "Come se non fosse successo nulla, -commenta sul suo blog Nava- come se l'Italia non fosse mai cresciuta (seppur di poco, soprattutto in anni recenti)".
La sensazione che si ha è di avere il vuoto davanti: queste persone arrivano a un punto tale di esasperazione che la partenza ha un po' il sapore della sconfitta. "La maggioranza di coloro che sono usciti dal Paese lo hanno fatto per mancanza di opportunità, ma se percepissero che qui c'è una speranza concreta sarebbero pronti a tornare" dice Nava. Allora se il momento di stallo lavorativo c'è, se le opportunità che si vorrebbero non si presentano è meglio non aspettare di essere così esasperati, perché andare all'estero non è l'ultima spiaggia, il salto nel vuoto che è stato per i nostri antenati, ma una grossa occasione di formazione personale e professionale che può essere programmata e gestita e non subita.
"Nei momenti di crisi, come questo, si riflette di più. E' fisiologico avere il desiderio di concedersi una pausa, non necessariamente per cambiare la propria vita, ma per chiarirsi le idee" spiega Riccardo Caserini, autore del sito www.annosabbatico.it e del libro "Mollo tutto e parto".
Nessuno di noi vuole piegarsi alle condizioni e ai condizionamenti, ma qualche volta il rischio è proprio quello di abituarsi a vivacchiare con quel poco che si riesce ad ottenere. Il mio professore di Organizzazione aziendale lo definiva il principio della rana bollita: era la storia, efferata ma efficace, di una rana messa in una pentola di acqua fredda con la fiamma sotto, che non percepiva il lento ma progressivo aumento di calore fino a quando non fosse stato troppo tardi. Lui usava l'aneddoto per spiegare che le imprese devono essere vigili ai cambiamenti, ma è un principio – quello di non adagiarsi sulle situazioni favorevoli o sfavorevoli che siano – che può valere per tutti.
"Quando si è giovani - sottolinea Caserini - ci sono meno responsabilità da lasciare. Dopo la maturità per esempio sarebbe molto utile per capire che direzione prendere (quale indirizzo di laurea, quale università e in quale Paese). Un altro momento può essere quello dopo la laurea, soprattutto per chi non ha lavorato durante gli studi. In ogni caso, sarebbe importante non avere sostegni, come quello economico della famiglia perché è solo così che puoi scoprire di avere in mano la tua vita. Quello che impari è che dipende da te". Insomma, il premio, per dir così, è che quando ritorni sei più forte, hai capito quello che vuoi ottenere e soprattutto ciò che non sei più disposto ad accettare "e ti accorgi di opportunità che prima non vedevi".
Solo che prendere e partire non è mica facile. Ci sono ostacoli reali e psicologici da superare: soldi, lavoro e col passare del tempo l'età – aggiunge Caserini - Poi manca l'agenda, non c'è scritto cosa fare e questo può essere spiazzante se si è abituati ad avere una giornata cadenzata dagli impegni". "La maggior parte di chi mi scrive concentra le sue paure nella ricerca del lavoro. – dice Aldo Mencaraglia, autore del sito italiansinfuga.com e da vent'anni all'estero - Questo e', secondo me, naturale ma anche controproducente. Il non volere partire senza la garanzia del lavoro blocca, inutilmente, moltissimi. Trovare lavoro all'estero dall'Italia è molto più difficile che non farlo in loco. Il vero ostacolo può essere quindi il non avere l'appetito per il rischio. Facile a dirsi scrivendo dall'estero, ma ci si dovrebbe comunque preparare ad un periodo iniziale di 'compromessi' nella speranza, quasi una certezza, che lavorando duramente si otterranno i risultati agognati".
"Un consiglio ai giovani – sottolinea Nava - è quello di partire, non di fuggire, di fermarsi fuori, da viaggiatori nello spirito di Gulliver, così da acquisire un curriculum importante per poi decidere". "Se non ora, quando? – rafforza il concetto Mencaraglia - Scherzi a parte, la congiuntura economica non favorevole in molte nazioni estere presenta difficoltà ma anche opportunità. Le aziende che investono in tempo di crisi sono quelle che vincono quando le condizioni diventano più favorevoli. In modo simile, andare all'estero quando è più difficile consente di porre le basi per avere successo quando il mercato del lavoro migliorerà. Altrimenti si rischia di inseguire il prossimo boom (vedi Irlanda e Spagna) per poi dover tornare quando il vento cambia". Per alcuni utili suggerimenti...
Raffaella Giuri